I Vagabondi (Bieguni, 2017): vincitore dell'International Booker Prize nel 2018. Il premio, dal 2016, è assegnato esclusivamente a testi tradotti in inglese: autore e traduttore condividono il premio.
L'edizione italiana per Giunti è, apparentemente, tradotta dall'originale polacco.
Il titolo scelto per l'edizione inglese è 'Flights', molto più corretto di quello italiano in relazione all'originale: stando alla wikipedia, 'bieguni' significa fuggiaschi e riferisce a una particolare setta di Cristiani Ortodossi conosciuti come 'Beguny' o i 'Veri Cristiani Ortodossi Peregrinanti'.
...salto il resto della spiegazione: 'vagabondi' dà l'idea di qualcuno a cui piaccia viaggiare, 'Bieguni/Flights' implica la necessità di viaggiare per scappare da qualcosa.
Mi sembrerebbe diverso, ma non conosco minimamente il polacco e questa critica al titolo italiano deriva da pochi minuti di ricerca online.
Tutto ciò detto.
L'autrice, Olga Tokarczuk, ha anche vinto il nobel per la letteratura, sempre nel 2018.
I Vagabondi è un... diario. Un diario senza date o riferimenti precisi di luogo. Composto da 116 voci di varia lunghezza: alcuni sono commenti e brevi racconti in prima persona dell'autrice, altri sono racconti in terza persona ispirati a personaggi incontrati durante i viaggi e/o da cose viste durante i viaggi. Questi racconti, quindi, possono essere dedicati a personaggi senza nome completamente inventati o a personalità realmente esistite.
E' un diario di viaggi e l'autrice lo fonda sulla finzione (presunta) che sia letteralmente il suo quaderno di appunti durante il suo continuo peregrinare per il mondo. Una zingara.
C'è autobiografia, c'è finzione. Ci sono riflessioni personali e, a dirla tutta, c'è davvero un po' di tutto.
E' un romanzo informe o proteiforme.
Pensieri sparsi e racconti parziali, interrotti e poi ripresi sparpagliatamente nel corso del testo.
Lungi dall'essere una struttura precisa e pulita, non è il Decamerone, i Vagabondi possiede, comunque una sorta di filo conduttore tematico ricorrente: non sono proprio pensieri a cazzo.
Naturalmente si parla del senso del viaggiare e dei modi di viaggiare, non tanto dei modi fisici ma di quelli psicologici connessi all'atto di partire per andare da qualche parte, o partire per non essere più da qualche parte. C'è, più interessante, una curiosa e morbosa tematica dedicata a corpi e cadaveri: l'autrice visita assiduamente tutti i luoghi con esposizione di reliquie sacre (corpi e parti di corpi di santi) e mostre di plastinazioni alla von Hagens (citato nel testo: alcuni dei racconti parlano di suoi precursori e successori), o i vari gabinetti delle curiosità contenenti vasi con freak e altre deformità grottesche.
Non c'è una storia, ergo non c'è un finale. Fastidiosamente, anche molti dei racconti sono 'incompiuti': privi di un finale pieno.
Sembrerebbe un agglomerato di scritti raccolti alla rinfusa da un autrice grafomane tra un aeroporto e una stazione, ma sarebbe scorretto mancare di evidenziare l'esistenza di una lieve struttura interna: a volte solo vagamente percettibile, in altri casi marcatamente diretta. In altri casi, a dirla tutta, impossibile da riconoscere.
Mi trovo in una condizione particolare nel parlare di questo libro perché io non viaggio.
Non sono un hikkikomori: sono continuamente in giro tutto il giorno... per il quartiere con il cane di solito. Conosco tutti nel quartiere ma, se posso, non esco dal quartiere: le mie radici sono profonde e il mio stato è stanziale. Mi infastidisce uscire dal quartiere, figurarsi dai confini della città.
L'autrice basa se stessa su una caratterizzazione che si oppone, completamente altra, a una delle mie principali... e la rappresenta compiutamente su carta: la natura erratica dell'autrice si riflette perfettamente nei movimenti eccentrici dei racconti e nel susseguirsi appena orientato dei componimenti di questo libro.
Il libro non mi è piaciuto, però mi è piaciuto leggerlo.