Ballpark - Baseball in the American City (Id, 2019): ogni tanto penso di essere nato nel posto sbagliato. Avrei potuto nascere in Giappone, dove spendere soldi per comprare merchandise di videogiochi e anime non sarebbe così difficile, o negli USA, dove guardare una partita di baseball in uno stadio decente non sarebbe impossibile.
...poi mi rendo conto che se fossi nato in uno dei due, sarei solo uno sfigato come gli altri, invece di un eccentrico italiano.
Torniamo però un attimo alla seconda delle due possibilità, quella americana.
A Bologna c'è una delle più forti squadre europee di Baseball, e seguo il campionato e vado ogni tanto a guardare le partite (adesso quasi mai, una volta di più), ma il Baseball in Italia è uno sport da pochi soldi. Praticamente non ci sono giocatori professionisti, sono tutti costretti a fare altri lavori, e le (infra)strutture di supporto sono inesistenti o da oratorio.
Un americano al Falchi si sentirebbe come Paris Hilton in un airbnb di Calcutta.
Quello non è un albergo (come gli Hilton) e quello non è uno Ballpark (come Fenway Park).
Questo è un libro di architettura dedicato all'analisi storica e artistica dei più famosi stadi del Baseball americano.
E' un libro di architettura scritto da un critico di architettura vincitore del Pulitzer per i suoi articoli, Paul Goldberger.
Non è scritto in un gergo tecnico troppo spinto, anche se qua e là ho dovuto mettere mano al dizionario per capire alcune parole inconsuete (per me), ma è un saggio che vede l'architettura come una forma d'arte e gli stadi come un'espressione di quest'arte.
Conseguentemente in lungo e in largo per tutto il libro, gli stadi vengono visti come strutture che trasmettono o meno emozioni, che si inquadrano o meno nel tessuto urbano, che funzionano o meno come edifici, che seguono o meno correnti culturali, etc etc.
E' un libro capace di esercitare appeal più sugli appassionati di Città che su quelli di Baseball.
Io sono appassionato di entrambe le cose. 
Il volume si presenta corposo e di grosso formato, seppur ridotto per dimensioni rispetto al tipico libro da tavolino: foto in bianco e nero, e a colori. Stampa pregiata.
L'introduzione è classicamente svolta per anticipare il grosso dei contenuti del libro: il Ballpark è una metafora della fusione tra ruralità e urbanità, è uno spazio verde in città. Rus in urbe, ripete frequentemente l'istruito Goldberger.
Si potrebbe dire di qualsiasi campo sportivo, o parco in genere, ma il contesto del Baseball è quello dello sport nazionale americano e il suo stadio è trasversalmente più popolare di un parchetto di quartiere.
L'evoluzione creativa dei Ballpark inizia nella forma di spazi ritagliati all'interno del preesistente cittadino: gli stadi si adattano alle strade e alla viabilità urbana, e sono quindi tutti diversi tra loro e pieni di quirk. Il secondo periodo vede stadi costruiti fuori dalle città per assecondare il successo e costruire parcheggi; nel terzo, gli stadi ritornano nelle città per curarne il tessuto degradato e rivalutare aree disagiate. Il quarto periodo vede gli stadi cannibalizzare la città: adesso sono le città che si adattano e deformano per ospitarli. L'ultimo stadio è quello dei Ballpark come parchi gioco isolati e autosuffcienti, indifferenti al contesto urbano.
E' abbastanza facile fino da questo primo capitolo introduttivo capire quali siano quelli preferiti da Goldberger.
Primo capitolo: la nascita del concetto di Ballpark. Union Grounds del 1862 a Brooklyn è il primo. In questo capitolo, Goldberger ne approfitta per raccontare anche la storia di Central Park, 1858, e spiegare l'inizio del concetto di 'verde cittadino'.
Nel secondo capitolo il baseball diventa un business e gli stadi crescono per dimensioni diventando sempre più presenti e parti integranti del paesaggio cittadino, per accogliere spettatori e scommettitori. I proprietari cominciano a investire nei servizi e nelle infrastrutture, e i magnati di servizi e infrastrutture cominciano a investire negli stadi.
La storia del Baseball e quella della Ferrovia vanno di pari passo.
Boston è l'avanguardia del baseball: entrano in scena gli architetti e gli stadi assumono forme più monumentali. South End Grounds e il Gran Pavillon. In questi anni c'è una curiosa differenziazione tra le leghe del baseball: la American League è popolare e chiassosa, la National League è per i ricchi ed eleganti vittoriani. I rispettivi stadi vengono realizzati rispecchiando questa divisione.
Terzo capitolo affronta il tema dei materiali: fino a questo punto gli stadi sono sempre stati costruiti di legno e sono sempre più o meno andati distrutti in incendi. A Philadelphia viene costruito, a fine '800, il primo stadio non in legno: gli stadi cominciano a diventare molto costosi, così come il mantenimento delle squadre... tanto che allora, proprio a Philadelphia, nasce il concetto di foul ball come di souvenir.
Nasce involontariamente: il proprietario dei Phillies di allora fece mettere in prigione per una notte un ragazzino di 11 anni reo di aver rubato una foul ball. L'opinione pubblica non la prese proprio bene, diciamo così.
Il primo stadio non di legno non fu il famoso Shibe Park, ma nel capitolo si parla lungamente tanto dello Shibe quanto del Polo Grounds di New York come dei due simboli distintivi del passaggio dell'architettura sportiva nel nuovo secolo.
Il capitolo 4 è un po' diverso dagli altri: intitolato "the golden age" è diviso in mini capitoli dedicati ad alcuni emblematici e memorabili stadi, divenuti parte integrante dell'immaginario comune USA. Sono 5: tutti costruiti tra 1912 e 1914; 3 non ci sono più. Il Crosley Field di Cincinnati (primo con le luci per le notturne), l'indimenticabile Tiger Stadium, Fenway Park (il più antico ancora in uso), Ebbets Field di Brooklyn e, ovviamente, Wrigley Field dei Chicago Cubs.
Le città vogliono le squadre di baseball e vogliono i loro stadi perché portano commercio e benessere.
Il capitolo successivo è quasi interamente dedicato allo Yankee Stadium e alla trasformazione dei Ballpark in monumenti.
Il capitolo ancora successivo è, invece, l'inizio della fine (per così dire): il business cresce e cresce ancora, ma le amministrazioni cittadine, per quanto desiderose di attrarre i proprietari/costruttori diventano insufficienti a garantire il livello di guadagni richiesto dagli avanti magnati del Baseball: gli stadi abbandonano le città per diventare più grandi e 'pratici'. Il Dodger Stadium fuori Los Angeles.
Questo capitolo fa il paio con il seguente, interamente dedicato a questi nuovi stadi dagli anni '50 in poi, troppi per elencarli tutti, realizzati fuori dalle città, affiancati da ristoranti e altre forme di intrattenimento non direttamente connesso al Baseball... delle cagate con tetti come l'Astrodome e altri. Il termine 'cagate' non è mio, non è manco dell'autore ma è un po' la sintesi del suo pensiero sul periodo in questione: Goldberger schiuma di rabbia guardando questi stadi multifunzione dove è possibile giocare a baseball un giorno e a football quello dopo.
Ho perso il conto dei capitoli... quintultimo: l'inizio della rinascita.
Il meraviglioso Camden Yards di Baltimore.
NOTA: la casa degli Orioles, il team che quest'anno se la gioca con i Tigers nella disperata rincorsa all'ultimo posto.
E' il ritorno del baseball urbano e, addirittura, la nascita di un baseball socialmente utile capace di rigenerare aree cittadine degradate e rivitalizzare intere città in rotta di collisione con la Crisi.
L'esperienza di Baltimore segna tutti gli anni '90 e seguenti fino ai giorni nostri: i costruttori degli stadi e i loro architetti si dividono circa nettamente in due scuole di pensiero. Stadi nelle città, stadi fuori dalle città: Progressive Field di Cleveland e Coors di Denver, buoni e urbani; Arlington e Phoenix, malvagi e persino dotati di odiosi tetti retrattili.
Il capitolo successivo insiste su questa divisione presentando due casi emblematici ed estremi: il nuovo, eccezionalmente collocato e squisitamente costruito, stadio di San Francisco, AT & T Park; e lo scempio orrorifico della demolizione del Tiger Stadium: il trionfo dell'ignoranza becera di pezzenti arricchiti sul valore dell'arte, della cultura, della civiltà e persino dell'umanità.
Il penultimo capitolo chiude questo blocco e ci porta ai giorni nostri, lo scontro tra le due correnti diventa una disputa tra retro e moderno: si torna, naturalmente, a parlare di New York.
Il nuovo Yankee Stadium, il cui processo è stato compiuto in modo decisamente meno pulp e odioso, più intelligente e rispettoso, rispetto a quello di Detroit, e Citi Field dei Mets dalla parte degli stadi 'retro'. Marlins Park dalla parte degli stadi moderni.
Su Marlins Park, l'autore si sofferma molto: costruito nel 2012 è uno degli stadi più divisi del Baseball contemporaneo. C'è chi lo vede come un pugno nell'occhio, completamente avulso dal circostante stile cittadino, e chi lo vede come un'opera d'arte espressivamente interessante proprio perché completamente avulsa dal circostante stile cittadino.
...che il Marlins Park non abbia un cazzo a che fare con il panorama urbano di Miami sono tutti d'accordo: l'autore è di quelli che lo considera un furbo, esteticamente piacevole, intellettualmente stimolante esperimento di architettura progressista. Io... ehm... no. Trovo sia una merda.
Nell'elogiare Marlins Park, l'autore tradisce un po' di elitismo artistico.
L'ultimo capitolo è un epilogo e un riepilogo: da Shibe Park al Marlins Park tutti gli stadi urbani e unicamente dedicati al Baseball sono buoni e giusti; tutti gli altri sono merde disgustose che andrebbero esplose.
Faccio un inciso: la prima metà del libro, quella storica per così dire, fino allo Yankee Stadium è una lezione universitaria di storia e architettura; la seconda parte del libro, quella da Camden Yards in poi, è un articolo di critica e un commento fortemente opinionato su architettura e arte.
Non è un caso che Goldberger si tenga il peggio per ultimo: è l'arma finale di ogni critico che si rispetti.
Le ultime pagine di Ballpark sono dedicate a SunTrust Park (fuori) Atlanta... e non potrebbe essere diversamente, essendo l'ultimo stadio costruito, inaugurato nel 2017.
Goldberger è lapidario: non riconosce a SunTrust manco la definizione di Ballpark, lo chiama denigratoriamente un Mallpark. Un gigantesco centro commerciale e parco divertimenti, isolato e indipendente come una cittadella, dove, per caso, c'è anche uno spazio per giocare a Baseball.
Intendiamoci: Ballpark non è un libro divertente, è un saggio di architettura scritto senza quella verve ironica utilizzata (o ameno finta) da divulgatori scientifici. Si può scherzare sulla scienza, non sull'arte. Ballpark è un libro serissimo dedicato a un pubblico estremamente circoscritto e interessato.