La Banalità del Male (Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, 1963): dopo la storia della carta e quella sul doping di Armstrong, il mio terzo saggio consecutivo è il celebre rapporto scritto da Hannah Arendt sul processo ad Adolf Eichmann svoltosi a Gerusalemme.
E' decisamente un buon libro e spiega senza difficoltà molto del successo internazionale di questa pensatrice ebrea di origine tedesca naturalizzata americana.
La Arendt racconta tutto il riguardante la figura di Eichmann e il processo che lo condannò a morte per i crimini contro ebrei e umanità sotto il nazismo.
La Arendt descrive il processo come uno spettacolo, non arriva mai a definirlo una farsa ma certamente fin da subito ne mette in dubbio la legalità: si parte da un rapimento in violazione del diritto internazionale, si procede con accuse gigantesche che vorrebbero Eichmann incarnare tutto il nazismo in assenza di Hitler, si prosegue con ben più di 100 udiente e una sfilata infinita di testimonianze di sopravvissuti spesso totalmente svincolate dai fatti in esame.
Si elogia il lavoro dei giudici, la capacità che ebbero di rifiutare la retorica politica imposta dall'autorità statale in questo processo-catarsi realizzato per obbiettare alla non centralità delle sofferenze ebraiche durante Norimberga.
Si descrivono in crudi e tragici dettagli i comportamenti delle vittime, degli ebrei, sia durante il nazismo che oggi: il sionismo, la collaborazione con le autorità naziste, il desiderio di auto-discriminazione, la passiva accettazione, etc etc.
Il libro è diviso in 3 parti principali: nella prima si esegue una descrizione cronologica della vita di Eichmann e della sua carriera nelle SS, nella seconda si descrive la situazione degli ebrei e lo sviluppo della soluzione finale nelle varie aree geografiche del Reich (cercando di stabilire effettive responsabilità dell'imputato); la terza e ultima parte riguarda la conclusione del processo, la condanna, le spiegazioni dei giudici e l'esecuzione: più un'appendice per discutere ulteriormente, in modo astratto e a detta stessa dell'autrice non particolarmente utile, la validità del processo e la reale importanza di Eichmann.
Eichmann era già stato condannato a morte ancora prima dell'inizio del processo, dal giorno stesso in cui ne venne ordinato il rapimento: Eichmann fu assolutamente colpevole, ma la teoria dell'autrice e l'atrocità del libro, conferma soprattutto una forma di responsabilità diffusa e assoluta di tutta la germania durante il nazismo.
La banalità di cui parla la Arendt riguarda ovviamente la figura di Eichmann stesso: una persona di scarsa intelligenza, poco talento, un ingranaggio di medio-alto livello in una macchina burocratica di sterminio dove, ed è uno dei passaggi più impressionanti, la difficoltà della coscienza era nel trovare motivi per 'non' fare. Non uccidere.
Nella germania nazista tutti uccidevano gli ebrei, tutti ubbidivano alla legge e agli ordini in modo più o meno convinto: Eichmann non era un mostro esaltato, un villain da prendere a pugni in un fumetto. Era la personalizzazione di un atteggiamento, di uno stereotipo nazionale che condivise con più o meno tutti in germania in quegli anni. Banalmente faceva ciò che facevano tutti gli altri.
Sorprendentemente l'edizione italiana è scritta in una lingua molto gradevole e moderna, apprezzabile ancora oggi, che non tradisce i 50 e più anni di separazione. I contenuti sono disturbanti: non tanto per la questione ebraica verso cui oggi si può provare o meno particolare empatia, ma per la similitudine che si possono facilmente cogliere nella descrizione del background tedesco dei primi anni del nazismo e la situazione contemporanea.