Cinderella Man: c'e' qualcosa nelle storie di sport capace di unire i sentimenti di persone distanti, geograficamente lontane, socialmente separate, economicamente divise; in molte di esse trovo i miei eroi personali e i racconti esemplari che piu' amo: e' una religione fondata sull'uomo, sulla forza di uno o di molti e, come ogni tanto accade, le migliori tra queste cominciano da una sconfitta. E' una fortuna che la nazione che maggiormente produce film sia un posto cosi' lontano da noi e dove il calcio non sia mai riuscito a prendere piede, altrimenti oggi saremmo sommersi da pellicole su misconosciuti mediani del dopoguerra ed io non avrei modo di parlare tanto su quanto sia diverso, migliore e ammirevole l'atteggiamento americano verso lo sport e i suoi interpreti. E' una mia opinione, s'intende, ma il calcio e' uno dei piu' terribili mali del (mio) mondo. In questi giorni sto seguendo trepidante l'ennesima prodezza agonistica e vitale di Agassi: 35 anni, le ultime tre partite vinte al quinto set, eppure ancora in finale in quello che e' per consuetudine acquisita ritenuto il piu' faticoso dei tornei; la vicenda del, vabbhe' chiamiamolo cosi', ex-kid di Las Vegas non ha molto a che spartire con quella di Braddock, ma alcuni punti di contatto esistono. C'e' qualcosa nelle storie di rivalsa che colpisce al cuore e pensare ''patetico'' e ''populista'' in senso negativo e' da emeriti coglioni: qui non si vuole raccontare l'abbruttimento della boxe come in Toro Scatenato, ne' un personaggio onnipotente come Ali o men che meno Million Dollar Baby: il pugile arrogante e mediamente abile sconfitto, sprofondato nei piu' bassi scantinati dell'umiliazione dalla poverta' dovuta ad eventi socioeconomici eccezionali e imbattibili, che fortuitamente ottiene una seconda possibilita' per far funzionare le cose, per salvare e proteggere la propria famiglia, per impegnarsi di piu', per dare ogni sforzo fino allo stremo portando sulle spalle le speranze di una nazione, dei suoi compagni operai disoccupati, alla maniera americana, come in una favola. E' come Seabiscuit (indietro per il blog). Quell'attrice non mi piace: tutta smorfie, urletti, pose, mugolii, si sarebbe potuto trovare qualcuno piu' adatto e degno all'interpretazione del personaggio ma sarebbe stato assai difficile trovare qualcuno che gia' interpretasse un personaggio; per fortuna o per volonta' a seconda di quanto si sia stati consapevoli dei difetti nella sceneggiatura, tutti i peggiori dialoghi del film sono affidati a lei, quelli da reality show pietosi e irritanti. Riuscendo ad escluderla dalla propria visuale si possono osservare tre valori notevoli: l'affanscinante montaggio che connette senza soluzioni di continuita' scene una sull'altra, la spettacolare regia (con alcune riprese dalla prospettiva di Braddock palpitanti ed emozionanti) dentro il ring e la sua semplicita' invisibile al di fuori, l'abilita' degli attori. Crowe e' in continua crescita': possiede una o due espressioni tipo che ripropone ad ogni film ma gli sta costruendo intorno tutta una serie di emozioni ulteriori e di grande comunicativa fisica e scenica; Giamatti e' un tipo antropologico che suggerisce un carattere, lo sa e ci gioca esaltandolo o sorprendendo con imprevedibili sorprese; i bambini sono sopportabili e tutti i caratteristi bucano lo schermo: ''accidenti, ma quello non e' l'amico di McGyver?''.