Spotlight: cominciamo con la banalità attempata. Ci fu un tempo quando Hollywood guardava ai giornalisti investigativi come agli eredi degli investigatori privati: cool, intelligenti, incasinati, ubriaconi, determinati, cinici, sentimentali. Ricercatori e dispensatori di verità scomode, il bastione di difesa tra l'uomo comune e la corruzione dei potenti. Cinematograficamente oro puro.
Cambia la tecnologia, qualche film sulla morte del mestiere, qualche tentativo di presentare giornalisti web (House of Cards) come un'evoluzione e non morte: se posso esserlo anche io, se mi basta un blog e andare in giro, non mi interessa guardarlo al cinema.
Ciò che piaceva di questi film era la redazione: il team, il capo che ti strilla, il rapporto tra giornalisti accreditati e forze dell'ordine, gli informatori, le fonti, le rotative, le scadenze con la scrittura dell'articolo all'ultimo minuto, la scrivania piena di documenti e il computer.
Senza tutto questo setting, il giornalista investigativo non funziona più: gli mancano i simboli.
Fatta la premessa, Spotlight è il più recente vincitore di un Oscar come miglior film: premio meritato e premio dato a un film come una volta.
L'originalità di Spotlight è solo nella gioventà dello spettatore, la bellezza di Spotlight è per lo spettatore di qualche generazione fa.
Primi del 2000 a Boston, il team Spotlight del Boston Globe (la wiki dichiara: la più vecchia squadra di giornalisti investigativi ancora in attività) sta ricercando la sua prossima storia. Arriva un nuovo editor, Liev Schreiber, da fuori città e chiede al gruppo: "io sono nuovo qui ma mi sembra evidente che ci sia un problema di preti pedofili da parecchio tempo, perché non indagate sulla questione?".
Il gruppo si mette a investigare.
Il senso profondo del film non è tanto sui peccati carnali della Chiesa Cattolica, neppure sul peso sopportato dalle vittime: il soggetto di Spotlight è l'omertà e gli intrighi, l'abuso di potere di un sistema cittadino inteso a proteggere il buon nome di un potere vecchio e corrotto.
Michael Keaton è protagonista, simpatico rimbalzo di carriera per lui in due anni due film vincitori del migliore Oscar. Mark Ruffalo è il supporting actor... e bisognerebbe misurare i minuti perché faccio fatica a credere che non sia lui il protagonista o che abbia meno tempo su schermo di Keaton ma... anche Hollywood è come la Chiesa Cattolica. L'anzianità conta.
C'è Rachel McAdams, l'unica donna in tutto il film che non sia seduta dietro una scrivania da segretaria o non stia cucinando. Il team Spotlight conterebbe anche un quarto membro ma è inutili ai fini del film.
Ci sono altri attori tra redazione e posse della Chieas, volti noti.
Il regista è Tom McCarthy, anche co-sceneggiatore, il suo film precedente è Cobbler con Adam Sandler. Uhm.
Tornando al discorso dei simboli: Spotlight è il simbolo della polemica nata intorno agli Oscar 2016, l'assenza di diversità etniche. Non entro nel merito dei ragionamenti se quote di qualsiasi colore, rosa/nere/altro, abbiano un senso quando estrapolate da un contesto di merito, mi limito a osservare il candore wasp di Spotlight. I neri a Boston non esistono.
C'è giusto Stanley Tucci, qui in veste di Armeno che tanto per gli americani chiunque sud Europa e Medio Oriente sono la stessa cosa.
E' un gran bel film che vive dei suoi attori e dell'importanza della sua storia, il resto è tralasciabile.
La vecchia Nuova Inghilterra è il posto adatto dove ambientare un film come questo, esattamente realizzato per sembrare una produzione degli anni '90, fine '80, con tutti i meriti e demeriti del tempo.