Blood and Bones: e' tanto chiaro quanto ovvio che di questo film, se non fosse per la presenza nel ruolo di protagonista di Takeshi Kitano, si sarebbe detto molto poco; nel 1923 un giovane coreano arriva in vista di Osaka, anni dopo lo ritroviamo adulto pieno di rabbia e violenza, affamato di potere e incontenibile nella sua bestiale determinazione: lungo i successivi sessant'anni circa della sua vita lo osserviamo lottare per il denaro, avviare attivita', estendere sempre di piu' la propria famiglia, picchiare, violentare, minacciare, ricattare ed esercitare ogni forma di vessazione possibile su qualunque essere umano incontri, continuamente teso a dominare lo squallido piccolo nucleo del ghetto coreano di Osaka, fino alla vecchiaia. Dopo l'amatissimo Quill (storia di un cane-guida, indietro per il Blog) Yoichi Sai cambia radicalmente affrontando questa sceneggiatura tratta da un romanzo semi autobiografico nel cui si mescolano dramma familiare, dramma sociale, dramma storico; la terribile e spaventosa vita in casa con il padre-padrone Kitano, la vita dei coreani in giappone, il comunismo e la guerra: tutto mescolato in un pappone confuso incrinato da continui e necessari balzi temporali a mostrare gli eventi piu' salienti e notevoli della storia, lasciando pero' il greve compito di spiegare e far comprendere evoluzioni e cambiamenti alla tanto poco originale voce narrante del figlio di Kitano. Torniamo quindi alla ragione di tutto: l'interpretazione di Kitano. Stellare, disumana, galattica, inumana, cosi' irresistibile che spesso durante il film, mentre lo si vede buttare la figlia giu' dalle scale o violentare le mogli o ancora pestare gli altri figli o mangiare carne avariata o avaramente nascondere ogni soldo guadagnato non si puo' fare a meno di pensare che sia colpa degli altri; il personaggio negativo accettato e partecipato dallo spettatore che non diviene complice delle sue malefatte ma semplice assistente esterno. Pur non avendo niente del documentario la freddezza della regia e dell'attore, inutile parlare degli altri, comunque sia e' Kitano il centro dell'azione suo malgrado e a discapito del resto, riescono ad annullare la ferocie emotiva delle scene: non c'e' passione, amore ne' odio, anche durante quelle scene di sesso persino censurate o in prossimita' degli omicidi e dei soprusi ogni gesto e azione sono meccanici, spogliati d'umanita', bestiali ma grigi e distanti. Il comportamento del personaggio poi viene mostrato riflettersi e specchiarsi sui figli, ma non si scade mai nella promessa di conseguenze o nella punzione morale: le reazioni seguono per ripetizione del modello base, avvicinandosi o allontanandosi da esso senza che sia mai indicata la possibilita' di scegliere, di arbitrare. Troppo chiuso e soffocato non ci si appassiona alla trama, men che meno ai personaggi: la fascinazione per la tragedia rende possibile arrivarne alla fine senza quasi accorgersi delle due ore abbondanti; l'agghiacciante sovraesposizione degli eventi poi e' talmente congelata da essere insensibile. Non mi stupisce leggerne come del miglior film del 2004, ha tutti i numeri giusti per esserlo salvo l'empatia.