The Birth of Saké: dato il successo di Jiro e l'arte del sushi, gli amici di Netflix hanno ben pensato di importare un altro documentario 'culinario' giapponese.
...sfortunatamente è di tutta diversa fattura.
E' più o meno un esordio alla regia per Erik Shirai (americano), il fotografo della serie 'No Reservations' di Bourdain. Ha vinto qualche premio.
E' una noia mortale.
Passata un'ora e mezza non ho imparato (capito, se non in parte) come si produca il saké.
Andiamo con ordine: non c'è voce narrante, le uniche voci sono quelle dei lavoratori nella distilleria artigianale Tedorigawa. Non sono interviste vere e proprie, non ci sono domande.
A volte raccontano qualcosa di specifico relativamente alle proprie vite, altre volte si comportano come in un reality show: agendo circa naturali e ignorando le telecamere.
Io preferisco i miei documentari molto più didattici, molto meno simbolici-espressivi.
In una distilleria artigianale, scopro, i lavoratori sono stagionali: la produzione del saké dura da ottobre circa ad aprile circa (6-7 mesi).
E' inverno e nevica. La neve è bianca e cade a fiocchi, il saké è fatto di riso. Il riso è bianco e i chicchi sembrano fiocchi.
Fammelo vedere una volta: è ok. Fammelo vedere due volte casomai non avessi colto: è ancora ok.
Ripeti questo 'simbolismo' per un'ora e mezza e mi avrai spaccato i coglioni.
Ricapitolo: niente voce narrante e fortissima insistenza sul bianco candido della neve e del riso super-polished usato per il super-saké artigianale... ottima idea ricorrere a sovrimpressioni bianche scritte molto piccole.
Esatto. Il documentario ogni tanto vuole provare a spiegare cosa stai guardando, lo fa con testi a schermo, bianchi su fondo bianco.
Passiamo oltre gli aspetti puramente estetici.
Dicevamo: 6-7 mesi di lavoro.
I lavoratori lavorano e vivono nella distilleria perché... beh, perché in una distilleria artigianale, quindi tradizionale, i giapponesi devono lavorare e soffrire come da tradizione. Turni di 12-15 ore, un giorno libero ogni due mesi. Ci sono quelli che muoiono sul posto di lavoro, come si conviene a un bravo giapponese.
Shirai è americano ma deve sentirsi giapponese nel midollo perché è riuscito a produrre un documentario che è la manifestazione dello stereotipo della produzione cinematografica orientale: pochi dialoghi, lirismo inutile, simbolismi pacchiani.
E' tutto così tipicamente giapponese, dalla rappresentazione alla storia vera e propria, da essere ridicolo.
I lavoratori lavorano e vivono insieme: quando sono in famiglia sono disadattati e vogliono solo tornare in fabbrica, o sono dei falliti e non avendo il vero spirito giapponese abbandonano la distilleria; i giovani non ne vogliono sapere di preparare il saké in modo tradizionale, preferiscono lavorare in posta e la distilleria rischia il fallimento perché nessuno va a lavorarci.
La distilleria rischia il fallimento anche perché a nessuno frega un cazzo di bere il saké e tutti i giapponesi preferiscono il vino occidentale o la birra, o il saké da due soldi beverino e facile da capire.
Nessuno apprezza il lavoro e il sacrificio di chi sputa l'anima per produrre super-saké da (immagino) un casino di soldi a bottiglia, fatto come lo facevano i nonni dei nonni, fatto (in effetti) quasi solamente da nonni.
'Quasi solamente'... come ogni tipica storia giapponese, anche in questa c'è il piccolo faro nella tempesta della sopravvivenza del Giappone di allora. C'è un giovane, il figlio del presidente, il capo pre-destinato che tutti amano e rispettano, e tutti i giorni più volte al giorno gli dicono 'guarda che sarai il capo, devi essere il migliore perché il futuro di tutti e tutto il giappone dipende da te'.
Il giovane figlio del capo lavora nella distilleria, si fa il culo molto più degli altri per essere all'altezza delle aspettative, quando gli altri smettono di lavorare lui lavora ancora, e quando gli altri vanno in vacanza in attesa del prossimo inverno, lui va in giro per il mondo a promuovere la cultura del saké e il business della sua ditta.
L'industrioso, giovane giapponese super-umano super-sacrificato del lavoro che trionfa e porta la luce del sol levante tradizionale su un paese indebolito dalla cultura dei fighetti europei e dei fighetti giovani debosciati... tutto questo fatto da un americano.
...che poi sono d'accordo, ma il documentario non puoi farlo soporifero.