Suzhou River: un videografo e' come un fotografo con una videocamera, non avevo mai sentito questa parola prima anche se immagino sia invece comune e frequente; il fiume Suzhou e' uno dei due grandi corsi d'acqua di Shanghai; so poco, aldila' dei nomi e opere piu' famose, del cinema mainland cinese (nei link al titolo si possono trovare piu' informazioni) ed e' stato piu' che altro un banale sfizio a portarmi a guardare questo che ora entra prepotentemente nel ristretto arco dei piu' bei film. Il gioco di regia iniziale e' inusuale: la videocamera del videografo, narratore e coprotagonista della storia, e' contemporaneamente il nostro punto di vista; in piu', ossessionato dalla registrazione, il nostro trascorre tutto il suo tempo standovi dietro e dandoci l'illusione di osservare dalla sua prima persona il mondo cosi' come gli appare; il mondo e' il fiume, uno spaccato di citta' rovinosa e vitale che vi vive sopra e ai margini: nascite, matrimoni, morti, amori e solitudini si susseguono organicamente nel nucleo fluviale e urbano. L'oggetto piu' frequente degli occhi e dei pensieri del narratore e' Meimei, donna inquieta che di notte indossa i panni della sirena nuotando all'interno di una grande vasca in un club; l'arrivo di un altro uomo, Mardar, dara' inizio alla vera storia: che non e', come potrebbe sembrare, la vicenda di un triangolo amoroso. Mardar incuriosisce il narratore, lo preoccupa e cosi' per scoprirlo, per conoscerlo permette alla videocamera di librarsi in aria, di staccarsi e volare come un occhio onniveggente immaginando quale possa essere il passato dell'altro, le sue attivita', la sua relazione con la misteriosa Moudan, la donna di cui e' innamorato e che secondo Mardar e' sosia perfetta di Meimei. L'occhio registrante privo di corpo diviene veicolo per raccontare e osservare, stando nascosto, spiando da sopra le spalle, la storia di Mardar e Moudan: una storia d'amore e dedizione; separata dal narratore la videocamera fantasma ogni tanto smette il gioco dell'ottica personale e si abbandona a campi lunghi, a riprese piu' consuete, per poi tornare ad abbracciare la propria natura e tornare a seguire la prospettiva del soggetto; l'intreccio complesso e surreale la cui risoluzione pero' ritrovera' la ragione di una conclusione circolare e completa permette alla videocamera svincolata definitivamente dalla mano del narratore di tornarvi ora di propria volonta' o di tornare a separarsene per riprendere gli incontri tra i due uomini o perdersi dietro il mistero del doppio Meimei-Moudan. La trama e' semplice nei suoi punti fondamentali ma la cronologia degli eventi e i particolari la sprofondano in significati e valenze di straordinaria emozione e fascinazione; la regia e' parte stessa del film, si permette e si prodiga come protagonista attiva intervenendo e scegliendo di rivelare prima o dopo cio' che viene conosciuto dai personaggi. Wong Kar-Wai e' chiaramente un modello intrattenibile che spunta ad ogni scena ma lo stile di Lou Ye (il regista) e' pieno e personale; fuori dall'ordinario le interpretazioni degli attori, carichi e perturbanti i dialoghi: la chiusura riserva una sorpresa, il film e' eccellente.